L' INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL' ESSERE.

"Ciò che si verifica una sola volta,è come se non fosse accaduto mai".
Maledetto antico proverbio tedesco,qualche giorno fa hai incontrato i miei occhi ed adesso non lasci più la mia mente.
Ma non a causa del motivo per cui sei stato creato.
Eh,sarebbe troppo facile e tremendamente semplicistico legarti al più ampio    tema dell'esistenza intesa come irrilevanza delle proprie scelte,dei propri gesti o pensieri in relazione all'obbligato destino di ognuno di noi,troppo mite ed anche piuttosto trito attribuirti come unico significato un paradosso.
Il punto è che tutti conosciamo la ragione per la quale si vive:è talmente semplice,viviamo perchè siamo venuti al mondo.
Le altre specie animali questo lo hanno capito bene ed infatti non trascorrono il proprio tempo angosciandosi sul fatto che tutto è inutile dal momento che prima o poi arriverà la fine ma si godono il mondo con  tutti i pro ed i contro,assaporano i vari momenti che sono loro concessi nell'ottica della vivacità della vita e non di passività dell'esistenza:in poche parole,essendo vivi vivono.
Ma all'essere umano questo non basta.
La ragione di ciò probabilmente risiede nel suo stesso cervello,ricordo di aver letto un libro intitolato "L'albero della vita" che spiegava molto bene questa concezione:diceva che la struttura della mente umana è sofisticata e particolareggiata,più specificatamente è talmente avanzata rispetto alla struttura del corpo che al momento del massimo sviluppo dell'elaborazione intellettuale coincide l'inizio del decadimento corporeo così che l'uomo,percependolo inconsciamente,viene a conoscenza del concetto di morte e avvertendone l'avvicinarsi sente il bisogno di trovare un senso alla vita,una spiegazione sovrannaturale ma immanente in grado di fronteggiare il fato ultimo cui è destinato ed essendo del tutto impotente di fronte a questo contrasto,abbandona la questione ad un un'insostenibile paradosso.
Ma a mio avviso vi sono dei grossi errori di valutazione pregiudiziali l'uno all'altro in questo modo di vedere le cose.
Il primo sbaglio,per così dire "teorico" risiede nella nostra indole assolutamente individualistica che ci conduce ad un'analisi privata del fenomeno visto in termini di "IO nasco,IO vivo,IO muoio":in quest'ottica è chiaro che non si può parlare di altro se non d'impotenza dell'uomo di fronte allo svolgersi del ciclo vitale ed in particolare del suo evento ultimo,ma si tratta di una visione soggettiva in senso stretto perchè se si spostasse l'attenzione al di fuori dei vari microcosmi individuali ci si accorgerebbe che la Natura ci ha dato un'efficace rimedio contro la morte,tanto semplice quanto potente da esser spesso associato ad un miracolo,cioè la nascita o più propriamente la procreazione..ed è proprio nella capacità di trasferire una parte di noi da cui si evolverà un nuovo essere vivente,uguale ma diverso,che alligna l'immortalità.
Un secondo errore,per così dire "pratico" dimora invece nella collocazione che siamo soliti dare a questo tipo di fenomeno:se da una parte è vero che in termini individuali nessuno di noi può scegliere se e quando venire al mondo o morire,d'altra parte è vero anche che si tratta di due precisi momenti tra i quali necessariamente si sviluppa un periodo consistente in una quantità sicuramente maggiore di attimi,un arco tempo-spazio in cui il nostro arbitrio soggettivo regna sovrano..è la vita.
Ed è nel binomio "impotenza della nascita-vita" e non in quello "vita-impotenza della morte" che alloggia l'insostenibile leggerezza dell'essere.
Proprio così.
Non si può pensare all'anima come ad un qualcosa di assolutamente etereo e celestiale che insinuandosi misticamente nelle nostre carni ci ha dato il dono dell'intelletto,non si può isolare la parte spirituale dalla parte tangibile del nostro essere,l'anima è sicuramente venale poichè generandosi ed evolvendosi nel caduco non può far altro che essere ad esso collegata:il profano la istruisce,il divino la consola.
Non sto dicendo che sia impossibile o improbabile una "vita" dopo la morte,in fin dei conti e da un certo qual punto di vista non solo la religione ma anche la scienza l'ha sostenuto:partendo dalla teoria atomistica di Democrito fino ad arrivare al principio di conservazione della massa di Lavoisier,quando si dice che "nulla si crea,nulla si distrugge ma tutto si trasforma" s'intende proprio sostenere che la fine non è fine a se stessa ma si tratta di un evento di trasmutazione che permette alla vita di continuare in un'altra forma.Ora,io non so-e nessuno ma proprio nessuno lo sa con certezza-se esista o meno un Dio buono e giusto,però credo che se è davvero degno d'essere "epitetato" come buono e giusto non giudicherà secondo le regole dell'uomo ma secondo le regole del mondo e di certo il suo discernimento non investirà solo la specie umana ma tutti gli esseri viventi...ma soprattutto,è davvero giusto comportarsi bene al solo fine di non ricevere un'eventuale punizione ultraterrena in un'eventuale seconda vita?Non è questo stesso un peccato dettato da assoluta falsità ed egoismo?Sinceramente credo che l'errore sia una condizione umana e più propriamente ciò che ci distingue dall'entità divina così come la intendiamo noi in quanto se vogliamo guardare all'aspetto prettamente religioso,proprio Dio ha dato all'uomo la facoltà di scelta e quest'ultima ipotizza e presuppone lo sbaglio,perciò a mio avviso ciò che è veramente giusto consiste nel tentar di fare del proprio meglio,mettendo in conto anche la magagna,durante il soggiorno terreno e non per timore  del trascendente ma per rispetto della vita e del mondo,cioè del terreno stesso.
Detto questo,cos'è allora l'insostenibile leggerezza dell'essere?
Per spiegare ciò che penso al riguardo vorrei partire da una similitudine elaborata dal cantautore Francesco Guccini nel suo brano "Ballando con una sconosciuta" in cui si trova un parallelismo tra le parole "felicità" e "facilità" intese come l'una l'anagramma dell'altra ad eccezione(barando)di un'unica lettera..ed in effetti,è esattamente in questa congruenza che s'annida lo status in esame. 
Tutte le specie viventi tendono alla ricerca della felicità intesa come ottimizzazione di sensi e luoghi che sono loro propri,perchè in fin dei conti è l'istinto di sopravvivenza stesso che spinge all'assunzione dell'essenziale ed una volta trovato entra in gioco la capacità d'adattamento che invece esorta alla ricerca del più soddisfacente e felicità è sinonimo di appagamento,ma non in senso relativo in quanto essere felici significa stare il meglio possibile con riguardo alla propria realtà.
Ora,ancora una volta il discorso è lievemente diverso per la specie umana e stavolta non solo a causa della sua struttura mentale ma anche in ragione della sua struttura pratica:durante il suo sviluppo storico,sempre grazie alle sue innate capacità osservative,l'uomo ha conosciuto ciò che gli ha permesso di divenire "civile" e per quanto possa sembrare strano,la cognizione in esame è proprio la pratica della coltivazione..parte tutto da lì,poichè l'imparare a lavorare la terra gli ha permesso non solo di trovare una via nutritiva alternativa ma anche d'attirare il bestiame erbivoro con la conseguenza che pian piano è riuscito a soggiogarlo,addomesticarlo così che non avendo più bisogno di spostarsi da un luogo ad un altro alla ricerca di cibo,ha iniziato a stanziarsi in luoghi circoscritti creandosi rifugi via via sempre più complessi e l'avere a disposizione gli elementi necessari alla sopravvivenza gli ha permesso di spostare la sua attenzione su argomenti diversi dando vita ad un'evoluzione talmente trasformista da averlo reso una categoria a parte nella più ampia specie animale,
Nel mondo umano perciò germina ormai un tipo di felicità uguale nel concetto ma diversa nell'applicazione poichè non si ha più riguardo all'ottimizzazione di sensi e luoghi per così dire primari,ma s'inerisce ad un'altra categoria degli stessi di derivazione tipicamente umana tanto alla materialità quanto all'ideazione:è nelle sfere affermativa e affettiva che l'uomo ricerca la sua felicità.
A questo punto però urge una precisazione circa l'istituto della felicità.
Occorre rilevare che lo stato d'animo in esame non presenta le caratteristiche della perpetuità e della continuità,al contrario si tratta di un fenomeno istintuale momentaneo e fuggente:istintuale perchè quando una cosa ci rende felici è a causa delle intense sensazioni positive che ci trasmette,momentaneo in quanto sicuramente destinato ad affievolirsi in un periodo più o meno lungo visto che col trascorrere del tempo quella stessa cosa prima capace di regalare superlative sensazioni non tarderà a mostrare anche i suoi lati negativi generatori d'esiziali effetti ed infine fuggente poichè quell'infievolimento che la rende momentanea può improvvisamente riaccendersi in relazione allo stesso o ad altro oggetto per un numero infinito di volte.
La felicità quindi non può permanere.
Il fatto è che una felicità permanente non è più felicità ma si trasforma in uno stato d'animo diverso poichè quando il suo fugace essere intrinseco s'accresce di un parametro costante,in questo caso identificabile nella volontà di mantenimento,muta nella fattispecie della serenità ed in tal stato d'animo la felicità non rileva più dal punto di vista dell'effettività ma da quello della potenzialità,non è più carattere predominante persistente ma pregiudiziale elemento costitutivo.
Samuel Taylor Coleridge diceva che "la felicità della vita è fatta di frazioni infinitesimali:le piccole elemosine presto dimenticate di un bacio,di un sorriso,di uno sguardo gentile,di un complimento fatto col cuore" probabilmente per il fatto che la felicità è principalmente sensoriale,istintiva,è la rutilante percezione di qualcosa che tocca il nostro profondo oppure la travolgente idea di come quel qualcosa potrebbe lambirci e proprio per il suo carattere fugace essa è mutevole poichè può tendere verso qualsiasi cosa in qualunque momento.
E proprio qua si annida la sua facilità.
E' talmente semplice provare emozioni ma è così difficile accettarle perchè non sempre esse vanno d'accordo con le nostre scelte,la volontà è la risultante del nostro arbitrio,è la direzione che la ragione decide di adottare ma la vita non è lineare e ancor meno lo è la voglia di vivere,l'ardimento che ci è proprio è un quid cavilloso che agisce interiormente prescindendo da ciò che si ritiene o meno giusto e ci pone di fronte a situazioni che trasmutano in pensieri nascenti non dalla mente ragionevole ma dall'intelletto sensoriale:come ciò che si verifica una sola volta è come se non fosse accaduto mai,allo stesso modo ciò che non si verifica nella realtà ma esiste nell'inattuabile è come se fosse accaduto poichè il solo fatto d'averlo pensato lo rende probabile,potenziale e quando l'idea diventa cruccio la faccenda che ne scaturisce diviene un contrasto di difficile sopportazione.
Ciò che si desidera ma non si vuole,ciò che si vuole ma non si può avere,ciò che si sente ma si rinnega,ciò che non si prova ma si vorrebbe o dovrebbe avvertire,ciò che è sbagliato ma diverso sarebbe giusto,insomma,tutto ciò che esula la prospettazione che ci si è fatti della propria vita ma che comunque ne fa parte,è la multiformità dell'animo...
E' l'insostenibile leggerezza dell'essere.